Francesca Chiodi

Sembra una tomba come un’altra.

Molto datata, certo, come prova l’epitaffio, ormai quasi illeggibile. Il loculo è usurato dal tempo e dall’incuria.

È posto in alto, all’estremo confine ovest del cimitero monumentale de L’Aquila, su un muro confinante con una frequentata fermata dell’autobus di fronte lo stadio di Acquasanta.


Sulla tomba è ritratto il volto di una giovane donna. La scritta recita Francesca Paolina Chiodi / morta tragicamente a Genova il 13 gennaio 1911 / a 28 anni / riportata a L’Aquila da i fratelli e la sorella da lei beneficati / per seppellirla accanto alla madre.



Della morte di Francesca Chiodi sappiamo quello che scrissero le cronache del tempo. Erano le 3 del pomeriggio di venerdì 13 gennaio 1911. Il luogo: Albaro, Genova.

Due giovani, un uomo e una donna, conversano sotto un’arcata che affaccia sul mare: “Ad un tratto, – scriveva Il Secolo XIX il giorno successivo – con rapidità fulminea, il giovane estraeva di tasca una rivoltella e ne esplodeva tre colpi contro la compagna. Subito la disgraziata stramazzò al suolo supina.

Il sangue le usciva a fiotti da due ferite al collo e andava a raggrumarsi in lago attorno al corpo. L’assassino, colla faccia stravolta dalla follia, le lanciava un ultimo sguardo poi si allontanava di qualche passo come inorridito e si esplodeva un colpo di rivoltella al torace sinistro stramazzando a terra a sua volta”.

Lui era Fermin Carrera, studente di 26 anni, proveniente da Buenos Aires e follemente invaghito di Paolina, nata a L’Aquila 28 anni prima, con il nome di Francesca Chiodi.

Francesca Chiodi

nacque a L’Aquila il 28 gennaio 1883 da una famiglia di operai. Come donna di servizio lavava e stirava presso le famiglie facoltose della città. Finché, arrivò un giovane benestante che la volle con sé e la portò a Roma, l’ultimo anno del secolo, a soli 16 anni. Ma questa non è una favola e il ricco la prese come amante. Da lui ebbe un figlio che morì in culla. All’epoca, Francesca, non

sa che sarebbe diventata, suo malgrado, simbolo implicito di libertà ed emancipazione femminile. La vita “da amante”, però, non bastava a Francesca, nella città eterna muove i primi passi da café-chantant, cantante non dell’opera colta ma del cabaret, oltre che attrice di teatro. Il suo nome d’arte è Paolina Giorgi, debutta nel 1902 a Napoli, e poi nel resto del Paese e in Europa. Diventa famosa, tanto che Gabriele D’Annunzio ne tesse pubblicamente le lodi. E’ ricca, tanto da diventare una collezionista di gioielli.


Prova anche a tornare a L’Aquila, investendo con i fratelli nella società della mobilità Chiodi & Capranica, che gestisce i trasporti pubblici cittadini per anni. Ma presto riparte, perché le sta stretta la provincia. Non sopporta le male parole della piccola città. D’altronde Francesca era partita da stiratrice ed era tornata ricca, famosa e ancora più bella. In una parola, libera.

E così l’attrice abruzzese va a vivere a Genova, dove lavora all’albergo Bristol Palace (oggi storico hotel del centro cittadino) e si innamora del suo proprietario. All’apice della sua carriera, nove anni dopo il debutto, troverà la morte. È il 13 gennaio 1911,


Quando volle tentare l’arte della canzone […] – scrisse Il Messaggero nei giorni seguenti la sua morte – i suoi adoratori divennero legione in ogni città.

E la bella abruzzese godette tutto il dolce della vita galante, godette tutta la gioia di vittorie senza numero, tutta l’ebrezza di un singolare plebiscito di ammirazione, al quale non negò il suo voto il divo Gabriele [cioè, d’Annunzio]”. Una “dolce vita” che Francesca, ormai divenuta la “sciantosa” Paolina Giorgi, si era conquistata prima che lo studente argentino, respinto più volte, la uccise con tre colpi di rivoltella, quasi centodieci anni fa. Secondo le cronache di allora, l’omicidio-suicidio era maturato nel contesto di un corteggiamento ossessivo (e rifiutato) di Carrera.


Come racconta lo storico aquilano Errico Centofanti in “L’Aquila. Paolina: un eloquente modello”, i giornali di allora scrissero per giorni di quella “stiratrice che volle tentare l’arte della canzone”. La giovane, che morì ad appena 27 anni, fu seppellita nel cimitero di Staglieno, prima di essere riportata a L’Aquila, dove giace tuttora.


Il primo a inserire la figura di Paolina Giorgi in un romanzo fu Silvio Spaventa (direttore del Corriere dei Piccoli) in Tre uomini e una farfalla, nel 1921, romanzo che dipingeva la società de L’Aquila nella belle époque. Spaventa Filippi aveva studiato dieci anni in città. In quel romanzo era presente anche il personaggio, non esplicitato, di Francesca Chiodi, descritta tuttavia come una ragazza priva di talento, che aveva fatto carriera solo a causa della sua bellezza. Nonostante Tre uomini e una farfalla fosse una costruzione romantica e apertamente fantasiosa, quello scritto contribuì a un forte raffreddamento della famiglia nei confronti di Francesca Paolina. Quasi come se le dicerie cittadine fossero causa di disonore familiare. Negli anni 80 la sua figura tornò con Corrado Augias che scrisse una trilogia di romanzi noir – Quel treno da ViennaIl fazzoletto azzurro e L’ultima primavera, diventati poi film per la tv in onda su Rai 2 nel 1989 – che vedono come protagonista femminile proprio il personaggio di Paolina Giorgi, anche in questo ripetendo il cliché della ragazza dai facili costumi. Poi racconti, poesie, tutte opere ispirate alla bella Paolina, la sciantosa che ha fatto innamorare ricchi e poveri, studenti e impresari. “Troppo bella” per resisterle. Un cliché che naturalmente funziona in un romanzo. Nella vita, invece, Francesca Chiodi, nota alle cronache mondane come Paolina Giorgi, era solo una donna che non voleva essere di nessuno. Una cosa che oggi, come nel 1911, non è ancora comprensibile ai più.


Da: virtuquotidiane.it ilcapoluogo.it