Il culto dei defunti in Abruzzo.

Il culto dei morti, l’elemento principale di tutte le culture, ha la sua radice nella innata “religiosità” dell’essere umano e nacque con l’uomo stesso. La storia e l’archeologia dimostrano che i riti funebri erano celebrati, presso tutti i popoli, da sacerdoti, stregoni e capi tribù secondo modalità, usi e costumi diversi.

Era ritenuta cosa mostruosa lasciare un cadavere insepolto.

Nel credo cristiano e nella coscienza popolare ha continuato a vivere un forte sentimento, radicato nei culti arcaici dei morti considerati divinità sotterranee, che assimila i santi ai morti. Per questo la Chiesa celebra la festa di Ognissanti e quella della Commemorazione dei defunti in due giorni consecutivi il 1 e il 2 novembre. La prima è dedicata ai santi e festeggia il loro dies natalis inteso come il giorno della nascita in cielo, la seconda è riservata ai morti.

Nell’esistenza di un tempo, ritmata dal fluire delle stagioni e da tradizioni per lo più religiose, il culto dei defunti aveva una funzione biologica importante in quanto comportava gesti simbolici collettivi che aiutavano l’uomo a confrontarsi con la realtà integrale della vita e l’idea della morte diveniva naturale e pacificante, non angosciante come per l’uomo dei nostri giorni, che rifugge in maniera ossessiva dal pensiero di essa. La “pietas” verso i defunti è sempre stata molto sentita e presente nel popolo abruzzese sia negli aspetti folkloristici che in quelli tradizionali.


In Abruzzo molte sono le usanze e i rituali legati alle anime dei defunti e ai loro rapporti con il mondo dei vivi riflessi di antiche credenze. Sulle tombe, negli ossari, sugli altari delle chiese e sui

davanzali delle finestre si accendevano lumini per i morti. La visita degli ossari, dove si raccoglievano le ossa dei defunti riesumati, era d’obbligo. Secondo la credenza popolare, mentre la carne finiva in cenere, le ossa resistevano e venivano conservate con cura in quanto costituivano il seme della resurrezione dei corpi e nel giorno del giudizio finale, gli scheletri sarebbero tornati a ricomporsi e a rivestirsi di carne.

La tradizione dei ceri accesi nelle chiese e nelle abitazioni, comune un tempo a tutta l’Europa, è ancora viva in Abruzzo.

Fino pochi decenni or sono, quando le case erano ancora tutte abitate, i paesi assumevano l’aspetto di una diffusa luminaria in quanto si riteneva che, alla mezzanotte della ricorrenza di tutti i santi, i morti abbandonassero le loro dimore nel cimitero e si recassero in processione per le vie del paese.

Dalle luci del camposanto alle lingue di fuoco delle candele oscillanti alle finestre si snodava, silenzioso e invisibile il corteo delle anime dei defunti. I lumini posti sulle tombe servivano ai morti per farsi luce sulla strada del ritorno, mentre quelli accesi alle finestre indicavano il luogo dell’antica dimora.


A Introdacqua, l’immaginazione popolare definiva anche l’ordine di successione della sfilata delle anime: davanti venivano, ma senza muovere i passi, quelle dei nati morti; seguivano quelle delle creature decedute poco dopo il battesimo; poi quelle dei giovani e delle ragazze precocemente scomparsi; infine le ombre degli anziani e dei vecchi. Tutti, con una candela in mano. Questa processione, che si ripete ancora oggi, era chiamata Scurnacchiera e per l’occasione era ripetuta la filastrocca: “teri teri tera, e mo’ passa la scurnacchiera”. Il termine deriva da curnacchia (cornacchia o taccola, corvus monedula).

Si assimilavano le “anime sante” alle cornacchie in quanto , nel sentimento popolare i corvidi sono generalmente simboli ambigui negativi e positivi, tenebrosi e solari, ora messaggeri del

divino e ora manifestazioni demoniache.


Il percorso dai cimiteri sarebbe diretto verso una chiesa dove un prete, di spalle, celebrerebbe una messa in presenza delle anime dei defunti. E’ assolutamente da evitare di entrare in chiesa in questo frangente perché le anime dei morti porterebbero con sè anche i vivi che, per curiosità o per devozione, dovessero assistere alla messa insieme ai morti.

Nelle campagne d’Abruzzo ancora vige l’usanza di spalancare una finestra della stanza in cui si trova il moribondo, perché esalando l’ultimo respiro, la sua anima possa uscire più facilmente, o mettere in bocca o in tasca al defunto una moneta per pagare il pedaggio per l’aldilà, o corredare la salma di tutti gli oggetti che in vita gli erano cari.


Il Finamore riporta questo racconto proveniente dalla valle peligna:


“Una fornaia […] alzatasi assai di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti a una chiesa, che vide illuminata, credette che vi uffiziassero, ed entrò. La chiesa era illuminata e piena di popolo. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicina e dice: <<Comare, qui non stai bene; va’ via. Siamo tutti morti e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti>>.

La comare ringraziò, e andò via via subito; ma per lo spavento perdette la voce.”


La sera della vigilia del giorno dei morti, il 2 novembre, si usava appendere delle calze al camino e riempirle di dolci per i bambini a cui si diceva che erano doni di tutti i loro familiari defunti passati nella notte e ancora vige l’usanza in molti paesi “la sera del ritorno” di lasciare la tavola apparecchiata, il piatto pieno, la bottiglia del vino o dell’acqua, il bicchiere e unlume al centro perché, dopo la processione , i morti vengono a mangiare a casa.


A Pratola Peligna si posava sul tavolo apparecchiato anche una conca d’acqua col ramaiolo e si lasciava socchiusa la porta di casa per accogliere i defunti. Il giorno della ricorrenza per devozione si dovevano mangiare ceci, grano e fave lessati e confezionare dolci a forma di fave ritenute dagli antichi il cibo rituale dei defunti in quanto contenevano le anime dei trapassati.


Altra usanza molto diffusa era il pranzo funebre chiamato “consolo” che si svolgeva in una grande varietà di forme e veniva preparato dagli amici e parenti dei colpiti dal lutto a scopo consolatorio a significare il desiderio di reintegrazione nella comunità compromessa dall’evento luttuoso.


Un tempo vigeva anche l’uso del pianto funebre rituale, il lamento delle donne in presenza del defunto. Esso aveva diversi nomi: arpetà, repòte, plasmi, a seconda delle zone, che poi cadde in disuso in quanto considerato dalla chiesa una manifestazione di paganesimo e di superstizione.


I canti funebri di cui restano tracce sono: Il lamento della vedova di Vasto e Il lamento della vedova di Scanno.

I testi sono molto somiglianti, e questo dimostra che le nostre popolazioni migravano nell’interno della regione, quelle della montagna scendevano alla marina con greggi e armenti sostandovi anche a lungo per cui gli scambi avvenivano a tutti i livelli materiali e culturali.


Tradizione popolare molto diffusa, che si incontra con l’etica cristiana della carità, era anche l’elemosina; i contadini facevano regali in natura alla parrocchia, perché il prete li distribuisse ai bisognosi, ma si preferiva “fare il bene” (fa’ le bene) direttamente ai poveri. La sera di Ognissanti, nelle zone intorno a Pratola Peligna e Pettorano sul Gizio, i ragazzi, in piccole comitive, mascherati da spiriti, con la faccia impiastricciata da cenere o farina si recavano per le case del paese per ricevere “le bene” dagli adulti.


Tra le formule utilizzate per farsi aprire, alla domanda “Chi è?” i bambini rispondevano “l’aneme de le morte”.

La porta veniva aperta e si donava ai bimbi frutta secca e biscotti, in un rito scaramantico che voleva soddisfare le richieste dei defunti nel timore di maledizioni. Infatti la notte dei morti sarebbe frequentata non solo dagli spiriti dei cari di famiglia, ma anche da streghe che vagano tra i quartieri per rinnovare incantesimi e fatture.


Altra tradizione della vigilia e del giorno dei morti era la celebrazione di messe a suffragio dei defunti. A Raiano la funzione durava quasi tutta la notte; a Roccapia, sempre di notte, si cantava l’ufficio dei morti e il sacerdote celebrava la prima messa per i confratelli della congrega del Rosario.

In molti paesi abruzzesi era diffusa la credenza che di notte avesse luogo un’altra messa speciale, di sole ombre, officiata dai preti defunti per tutti i morti del paese. Una funzione religiosa molto

singolare, che è durata fino ai primi anni del 1900, si svolgeva a Sulmona il 2 novembre (come documenta da Francesco Simonetti in “Sulmona nei riti religiosi” del 1901) essa era caratterizzata da una forte commistione di usi pagani: banchetto, danza e forme di culto cristiane: processione, messa e sacra rappresentazione. A Pacentro, nella settimana dei morti, si celebravano messe in tutte le chiese fino alla festa di San Carlo, che cade la prima domenica dopo Ognissanti, mentre la sera della vigilia della Commemorazione dei defunti, si allestiva un banchetto per i morti, per dare loro ristoro in occasione della loro visita notturna. La mattina i cibi venivano distribuiti ai poveri.


In Abruzzo, conformemente a quanto avviene nel mondo anglosassone in occasione della festa di Halloween era ed è ancora tradizione scavare e intagliare le zucche e porvi all’interno una candela e utilizzarle come lumini in memoria dei defunti. Noi abruzzesi, che abbiamo un così ricco patrimonio di tradizioni e celebrazioni collettive relative al culto dei morti, anche se presi dal ritmo incessante delle nostre incombenze e affanni, attraverso il recupero e la riscoperta delle usanze e dei cerimoniali collettivi, che permettevano ai nostri antenati di accettare la morte come parte integrante dell’esistenza, potremmo riconsiderare l’idea del “passaggio” non più come angosciante ma in modo più sereno e pacificante.


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

– I documenti sono tratti da: l’Archivio di Stato, dall’Archivio della Cultura Popolare a cura di Marcello Bonitatibus, da “L’Acqua nuova” di Maria Concetta Nicolai e da “Folklore abruzzese” di Lia Giancristofaro.