La sera della vigilia del giorno dei morti, il 2 novembre, si usava appendere delle calze al camino e riempirle di dolci per i bambini a cui si diceva che erano doni di tutti i loro familiari defunti passati nella notte e ancora vige l’usanza in molti paesi “la sera del ritorno” di lasciare la tavola apparecchiata, il piatto pieno, la bottiglia del vino o dell’acqua, il bicchiere e unlume al centro perché, dopo la processione , i morti vengono a mangiare a casa.
A Pratola Peligna si posava sul tavolo apparecchiato anche una conca d’acqua col ramaiolo e si lasciava socchiusa la porta di casa per accogliere i defunti. Il giorno della ricorrenza per devozione si dovevano mangiare ceci, grano e fave lessati e confezionare dolci a forma di fave ritenute dagli antichi il cibo rituale dei defunti in quanto contenevano le anime dei trapassati.
Altra usanza molto diffusa era il pranzo funebre chiamato “consolo” che si svolgeva in una grande varietà di forme e veniva preparato dagli amici e parenti dei colpiti dal lutto a scopo consolatorio a significare il desiderio di reintegrazione nella comunità compromessa dall’evento luttuoso.
Un tempo vigeva anche l’uso del pianto funebre rituale, il lamento delle donne in presenza del defunto. Esso aveva diversi nomi: arpetà, repòte, plasmi, a seconda delle zone, che poi cadde in disuso in quanto considerato dalla chiesa una manifestazione di paganesimo e di superstizione.
I canti funebri di cui restano tracce sono: Il lamento della vedova di Vasto e Il lamento della vedova di Scanno.
I testi sono molto somiglianti, e questo dimostra che le nostre popolazioni migravano nell’interno della regione, quelle della montagna scendevano alla marina con greggi e armenti sostandovi anche a lungo per cui gli scambi avvenivano a tutti i livelli materiali e culturali.
Tradizione popolare molto diffusa, che si incontra con l’etica cristiana della carità, era anche l’elemosina; i contadini facevano regali in natura alla parrocchia, perché il prete li distribuisse ai bisognosi, ma si preferiva “fare il bene” (fa’ le bene) direttamente ai poveri. La sera di Ognissanti, nelle zone intorno a Pratola Peligna e Pettorano sul Gizio, i ragazzi, in piccole comitive, mascherati da spiriti, con la faccia impiastricciata da cenere o farina si recavano per le case del paese per ricevere “le bene” dagli adulti.
Tra le formule utilizzate per farsi aprire, alla domanda “Chi è?” i bambini rispondevano “l’aneme de le morte”.
La porta veniva aperta e si donava ai bimbi frutta secca e biscotti, in un rito scaramantico che voleva soddisfare le richieste dei defunti nel timore di maledizioni. Infatti la notte dei morti sarebbe frequentata non solo dagli spiriti dei cari di famiglia, ma anche da streghe che vagano tra i quartieri per rinnovare incantesimi e fatture.
Altra tradizione della vigilia e del giorno dei morti era la celebrazione di messe a suffragio dei defunti. A Raiano la funzione durava quasi tutta la notte; a Roccapia, sempre di notte, si cantava l’ufficio dei morti e il sacerdote celebrava la prima messa per i confratelli della congrega del Rosario.
In molti paesi abruzzesi era diffusa la credenza che di notte avesse luogo un’altra messa speciale, di sole ombre, officiata dai preti defunti per tutti i morti del paese. Una funzione religiosa molto
singolare, che è durata fino ai primi anni del 1900, si svolgeva a Sulmona il 2 novembre (come documenta da Francesco Simonetti in “Sulmona nei riti religiosi” del 1901) essa era caratterizzata da una forte commistione di usi pagani: banchetto, danza e forme di culto cristiane: processione, messa e sacra rappresentazione. A Pacentro, nella settimana dei morti, si celebravano messe in tutte le chiese fino alla festa di San Carlo, che cade la prima domenica dopo Ognissanti, mentre la sera della vigilia della Commemorazione dei defunti, si allestiva un banchetto per i morti, per dare loro ristoro in occasione della loro visita notturna. La mattina i cibi venivano distribuiti ai poveri.
In Abruzzo, conformemente a quanto avviene nel mondo anglosassone in occasione della festa di Halloween era ed è ancora tradizione scavare e intagliare le zucche e porvi all’interno una candela e utilizzarle come lumini in memoria dei defunti. Noi abruzzesi, che abbiamo un così ricco patrimonio di tradizioni e celebrazioni collettive relative al culto dei morti, anche se presi dal ritmo incessante delle nostre incombenze e affanni, attraverso il recupero e la riscoperta delle usanze e dei cerimoniali collettivi, che permettevano ai nostri antenati di accettare la morte come parte integrante dell’esistenza, potremmo riconsiderare l’idea del “passaggio” non più come angosciante ma in modo più sereno e pacificante.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
– I documenti sono tratti da: l’Archivio di Stato, dall’Archivio della Cultura Popolare a cura di Marcello Bonitatibus, da “L’Acqua nuova” di Maria Concetta Nicolai e da “Folklore abruzzese” di Lia Giancristofaro.